Banche - Mef, ecco i motivi dello stop Ue al fondo depositi
Un dossier del Ministero dell'Economia ricostruisce la trattativa con Bruxelles e spiega le questioni tecniche dietro l’impasse delle scorse settimane
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Un complesso intreccio di direttive sul salvataggio delle banche (2014/59/Ue), sul sistema di garanzia dei depositi (2014/49/Ue) e relativi recepimenti italiani (Dlgs n. 180 e n. 181 del 2015). Senza contare gli ostacoli posti dalle norme sugli aiuti di Stato. Il Ministero dell’Economia ha appena pubblicato un dossier che ricostruisce punto per punto la trattativa con Bruxelles e gli ostacoli che hanno impedito di utilizzare il Fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare Cassa di risparmio di Ferrara, Banca Marche e Banca Etruria. Arrivando a una conclusione: il complesso di norme in vigore ha bloccato lo schema di intervento che era stato disegnato dal nostro Governo. E anche procedere in maniera autonoma dalla Commissione Ue sarebbe stato impossibile.
La crisi degli istituti
La ricostruzione parte dalla situazione di grave crisi di alcune banche italiane in amministrazione straordinaria (Cassa di risparmio di Ferrara, Banca delle Marche e Banca Etruria). Il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), che aveva già avviato un primo intervento a favore della Cassa di risparmio di Ferrara, si era dichiarato disponibile a ricapitalizzare le tre banche. Ma non è stato possibile procedere.
E’, infatti, intervenuta la Commissione europea, che ha escluso la realizzabilità di qualunque forma di intervento del Fondo non accompagnata da “burden sharing”, la condivisione degli oneri tra azionisti e obbligazionisti della banca. A bloccare il progetto è stato un complesso mix di interpretazioni delle normative europee e dei relativi recepimenti italiani.
L'intervento ipotizzato dall'Italia
Andiamo per gradi. L’intervento ipotizzato prevedeva la ricapitalizzazione delle tre banche da parte del Fondo stesso, previo abbattimento delle perdite e conversione in azioni delle obbligazioni subordinate da queste emesse. Queste misure, però, andavano inquadrate nella direttiva 2014/59/Ue sul risanamento delle banche (Bank recovery and resolution directory, BRRD), recepita in Italia con i decreti legislativi n. 180 e 181 del 16 novembre 2015.
L’interlocuzione con la Commissione europea su questo intervento è andata, allora, male. Il motivo non è semplicemente legato alla qualificazione delle misure come aiuti di Stato, dal momento che questo schema sarebbe stato astrattamente ammissibile, perché prevedeva la partecipazione alle perdite e alla ricapitalizzazione di azionisti e creditori subordinati.
Le direttive BRRD e DGSD
Il problema è arrivato quando la Commissione ha sollevato un ulteriore problema di interpretazione del combinato disposto della BRRD e della direttiva 2014/49/Ue (sul sistema di garanzia dei depositi, chiamata DGSD). Qui viene previsto che il Fondo possa effettuare interventi come quello descritto, purché non si siano realizzate le condizioni per avviare la banca alla risoluzione.
Le condizioni per la risoluzione sono tre: dissesto o rischio di dissesto, mancanza di un’alternativa di mercato, inadeguatezza della liquidazione coatta amministrativa a conseguire i medesimi obiettivi della risoluzione. Secondo la Commissione, le banche potevano essere considerate in stato di dissesto o a rischio di dissesto e avevano soddisfatto anche le altre due condizioni. Per questo, avrebbero dovuto essere avviate alla risoluzione, senza alternative.
Il dialogo Roma-Bruxelles
L’Italia ha provato a ribattere che, seguendo questo schema, si arriverebbe a una contraddizione. Spiega il Mef: “L’intervento del Fondo di garanzia dei depositi imporrebbe la risoluzione della banca, ma una volta che la banca sia finita in risoluzione il Fondo non potrebbe effettuare quell’intervento, in previsione del quale sarebbe stato ritenuto presente lo stato di dissesto”. I commissari Hill e Vestager con una lettera datata 19 dicembre 2015 hanno, però, confermato la loro interpretazione e il progetto italiano è stato bloccato.
Impossibile procedere in via autonoma
Ma non finisce qui. Il Ministero spiega anche che l’Italia non avrebbe potuto, anche volendo, procedere per la sua strada. Se, infatti, il Fondo avesse lo stesso salvato le banche e l’intervento fosse stato dichiarato poi incompatibile con il quadro normativo europeo, gli istituti di credito sarebbero diventati impossibili da vendere, a causa dell’incertezza sulla tenuta giuridica dell’operazione. Inoltre, la ricapitalizzazione del Fondo sarebbe stata neutralizzata dalla necessità di effettuare un accantonamento contabile per fronteggiare future azioni della Commissione.