Fondi Ue 2014-2020, gli incentivi al rischio di impresa
Le Istituzioni europee sono nate per sviluppare un mercato interno comune in un’epoca dove l’economia era molto meno globalizzata dell’attuale. Non c’è quindi da meravigliarsi che le istituzioni, le persone che le costituiscono e la cultura che esprimono si siano evolute, di fatto ed al di là dei proclami, in una sorta di “corpo di polizia” impegnata soprattutto nel verificare che gli Stati membri non favoriscano le proprie imprese a discapito delle altre.
La debole crescita dell’Europa e competitor internazionali molto più pragmatici nell’applicare i paradigmi liberisti (BRICS ma anche gli U.S.A. che quando si è trattato di salvare il settore finanziario e automobilistico, sono intervenuti eccome nel mercato), richiedono una revisione della missione delle Istituzioni europee, più orientata alla crescita. Si tratta ovviamente di un percorso complesso e travagliato, pieno di resistenze e il cui approdo, come ci insegna la storia, è una sintesi che non assomiglia a nulla di già visto.
Dei mutamenti sono già in atto e chi vuole guidare questo cambiamento, come converrebbe senz’altro all’Italia, deve lavorare sulle frontiere, cogliere le novità e semmai potenziarle. Si ritiene, in particolare, che l’Italia non stia cogliendo tutte le potenzialità che già oggi ci offrono i nuovi aiuti di Stato e il quadro logico della programmazione 2014-2020, potenzialità senz’altro nascoste in una normativa sempre più complessa e che le stesse Istituzioni europee non sanno ben valorizzare sotto il profilo comunicativo.
Ci si riferisce alla nuova categoria degli aiuti al rischio, che consentono di “condividere i rischi” con il capitale privato nel sostenere pressoché tutti gli investimenti ritenuti utili per la crescita. Tale nuova categoria è una evoluzione degli aiuti al capitale di rischio delle PMI (si veda anche l’art. 21 del nuovo Regolamento Generale di Esenzione “RGE”) che però si applica anche ai programmi di riqualificazione urbana (anche art. 16 RGE), ai progetti ed alle infrastrutture di ricerca e sviluppo (anche art. 26 RGE), alle reti telematiche (anche art. 52 RGE), ai progetti energetici (anche art. 39 RGE), ai porti e agli aeroporti (come anticipato nel considerando 1 del RGE), arrivando a coprire anche i progetti culturali e gli impianti sportivi di più significativa dimensione (anche artt. 53 e 55 RGE) e, più in generale, tutte le infrastrutture materiali ed immateriali potenzialmente in grado di autofinanziarsi, almeno in parte (anche art. 56 RGE).
Mentre gli altri aiuti di Stato “tradizionali” sono leciti in percentuale (talvolta ridicole) su determinate spese ammissibili - di norma le più inoffensive rispetto la concorrenza e perciò di utilità mai dimostrata - gli aiuti al rischio sono leciti nella misura in cui il capitale privato altrimenti non realizzerebbe gli investimenti desiderati per favorire la crescita, misura da determinarsi mediante procedure competitive e quindi, per definizione, sempre in grado di trovare un punto di equilibrio con il capitale privato. Questo nuovo compromesso tra le opposte esigenze di “incentive to invest” e di tutelare la concorrenza nel mercato interno, è rivoluzionario rispetto le tradizionali politiche europee.
E’ un campo di azione difficile, che richiede un'amministrazione pubblica capace di investire, nel senso aziendale del termine e non più solo a fondo perduto, ma che ha un potenziale enorme (peraltro andrebbe approfondito il trattamento nei conti pubblici di tali asset finanziari, laddove trattarli come costi secchi ai sensi del patto di stabilità come oggi, dovrebbe apparire assurdo anche a uno studente di ragioneria). Questa è infatti l’opportunità che ci offre l’Europa per intervenire nel quasi-mercato, tutto quell’enorme campo che il mercato non affronta in autonomia ed allo stesso tempo non è nemmeno costituito da progetti pubblici tradizionali, affatto auto-sostenibili.
Un campo che comprende i servizi economici di interesse generale, una nuova urbanistica orientata dal profitto e non dalla rendita (quella necessaria a riqualificare l’esistente senza nuovo consumo di territorio, che è l’unica strategia realistica per il rilancio del settore edile) e, trasversalmente, lo sviluppo dei mercati dei capitali diversi dal credito bancario, più adatti a sostenere progetti e imprese innovative (Relazione annuale sul 2012, B. d’Italia, capitolo “L’innovazione”; Raccomandazione del Consiglio Europeo sul PNR 2013, n. 3).
La regolamentazione dei fondi strutturali e di investimento europei prevede persino degli incentivi per gli Stati capaci di usare strumenti finanziari e le partnership pubbliche e private, consentendo un minore cofinanziamento a carico dei bilanci pubblici nazionali e di sostituire detti apporti finanziari con apporti in natura o di capitali privati (artt. 120(5) e (7), 64, 69(3)(b) e 120(2)(a) del Regolamento generale).
Altri paesi, in particolare il Regno Unito, già da tempo sanno cogliere tali opportunità ma, per quanto mi è noto, anche la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria e la Polonia (che nel 2014-2020 intende adeguare tutto il sistema idrico tramite loans) stanno utilizzando i margini di flessibilità che già oggi l’Europa ci offre.
Piange il cuore vedere il mio paese eliminato dal Costa Rica ai mondiali, piange ancora di più, però, vederlo chiedere nuove flessibilità di spesa in Europa mentre altri paesi, non solo i soliti “virtuosi nordici”, colgono le occasioni che già ci sono per stimolare gli investimenti minimizzando la spesa pubblica.
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