Rapporto Cerved PMI 2020, redditivita’ in calo causa Covid-19
Fatturato e redditività delle piccole e medie imprese attese in calo a causa dell'impatto delle misure di emergenza messe in campo per contrastare la diffusione del Covid-19. Senza la ripresa molte attività potrebbero chiudere o ridimensionare gli organici. È questo il quadro di sintesi del Rapporto Cerved PMI 2020, giunto alla sua settima edizione.
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Il rapporto Cerved fotografa gli andamenti delle piccole e medie imprese nel 2019 e nella prima parte del 2020, con proiezioni sugli effetti del coronavirus relative a tutte le imprese italiane. Il focus di questa edizione è sugli impatti della pandemia sul piano occupazionale e sul capitale delle imprese.
PMI, fra ripresa incompiuta e solidità patrimoniale
Il sistema delle PMI italiane si confronta con l’emergenza sanitaria dopo un decennio caratterizzato da una ripresa lenta e incompiuta, che ha consentito di recuperare solo parzialmente i livelli dei conti economici pre-crisi finanziaria. Nonostante le difficoltà sui conti economici, la doppia recessione che ha colpito l’economia italiana nel 2008-09 e nel 2011-12 ha innescato un processo di selezione e ristrutturazione che ha reso le PMI più solide dal punto di vista patrimoniale e finanziario.
In termini reali, i ricavi sono tornati oltre i livelli del 2007 (+2%), ma la redditività rimane ampiamente al di sotto: le PMI hanno perso il 19,4% del Mol e il ROE si è ridotto dal 13,9% del 2007 al 10,8% del 2019.
Nel corso degli ultimi anni, anche grazie a una serie di misure di incentivo fiscale, la capitalizzazione delle PMI è cresciuta in modo più marcato rispetto ai debiti finanziari con il leverage quasi dimezzato (dal 115% al 61%). La politica monetaria espansiva della BCE ha favorito una riduzione di dieci punti percentuali dell’incidenza degli oneri finanziari sul Mol (dal 23% al 13%). Grazie a un maggiore livello di solidità, le PMI italiane sono diventate anche più disciplinate nei pagamenti con i fornitori, con i ritardi medi delle fatture scesi dai 14,7 giorni del 2014 ai 9 giorni di marzo 2020.
Coronavirus, una crisi asimmetrica
Una delle peculiarità di questa crisi Covid-19 è la sua natura fortemente asimmetrica: la necessità di mantenere il distanziamento fisico, le restrizioni imposte alla mobilità, l’esigenza di mantenere in attività solo alcune filiere di servizi essenziali durante il lockdown e la necessità maggiore di farmaci e attrezzature sanitarie hanno determinato impatti fortemente differenziati tra i settori economici.
Nel complesso, i fatturati delle PMI sono attesi nel 2020 in calo di 11 punti percentuali. Di fronte all’emergenza e ai mancati ricavi, le attese sono di una decisa riduzione dei costi da parte delle PMI. Come già successo nel 2009, le PMI taglieranno i costi operativi, soprattutto acquisti di materie prime e semilavorati, riducendo in maniera significativa anche i costi per servizi. Nonostante il blocco dei licenziamenti, le PMI ridurranno anche i costi del lavoro (-12%), sfruttando l’estensione della Cassa Integrazione, misura a cui hanno fatto ricorso moltissime aziende. La decisa riduzione dei costi operata dalle PMI sarà tuttavia insufficiente per evitare una nuova e brusca caduta della redditività lorda, che è attesa in contrazione del 19% tra 2019 e 2020.
Considerando, invece, gli effetti fortemente eterogenei di questa crisi nello specifico, le PMI sono state raggruppate in quattro cluster, a seconda dell’impatto atteso sui ricavi. In base al Covid-Financial Impact:
- 13mila PMI (l’8,4% del campione analizzato che genera il 10% del fatturato), appartenenti a settori della filiera farmaceutica e settori che hanno beneficiato di questa fase particolare (come il commercio online o la distribuzione alimentare moderna), riusciranno ad accrescere i ricavi nel 2020 o a mantenerli stabili;
- all’estremo opposto, figurano 19mila PMI per le quali l’impatto del Covid risulterà molto intenso (il 12% delle società, che generano il 10% del fatturato complessivo), con ricavi attesi in calo di almeno il 25% nel 2020: sono prevalentemente società che operano nella filiera turistica, nella ristorazione, nella logistica e i trasporti, in alcuni settori industriali;
- le restanti 124mila si dividono in un gruppo con impatti moderati (58mila PMI con cali inferiori al 15%, che realizzano circa il 42% dei ricavi delle PMI) e in uno con impatti alti (66mila con una contrazione compresa tra il 15 e il 25%, il 38% dei ricavi).
Le simulazioni sui bilanci consentono anche di analizzare gli indici dei settori per cui sono attese le performance migliori in termini di dinamica del fatturato. In questi settori la crescita dei ricavi è stata seguita da un miglioramento degli indici di redditività e da conti più solidi. Il commercio online, già ampiamente in crescita nel 2019, supera di gran lunga tutti gli altri nel 2020, con un fatturato in aumento del 23,8%, un forte aumento della marginalità lorda e netta, una riduzione della leva e del peso dei debiti. Tendenze simili per la produzione di specialità farmaceutiche, che sono state favorite dall’emergenza sanitaria, e per settori che hanno visto una domanda in lieve crescita anche nel periodo del lockdown, come la produzione di pasta, la distribuzione alimentare moderna, i prodotti per la detergenza.
Viceversa, per alcuni settori l’impatto della pandemia ha avuto conseguenze drammatiche. Tra questi troviamo tutta la filiera viaggi, sia per turismo che business, penalizzata in maniera notevole dalle restrizioni alla mobilità nel periodo primaverile, ma anche dal ridotto afflusso di turisti stranieri nel periodo estivo. Le contrazioni dei fatturati vanno dal 38,1% al 47,1%, con conseguente riduzione dei margini, che in un caso diventano negativi (agenzie di viaggio e tour operator). La redditività, misurata con il ROA, rimane lievemente positiva solo per le strutture extra alberghiere, mentre il rapporto fra oneri finanziari e Mol cresce in misura significativa per tutti, soprattutto per effetto del calo dei margini.
I costi del Covid e il rilancio delle imprese italiane
Gli interventi messi in campo dal Governo nella fase acuta della crisi hanno mitigato gli effetti sui lavoratori e sulle imprese. Un tema di grande rilevanza per gestire la ripresa è valutare i potenziali impatti del Covid-19 sui posti di lavoro e sulla capacità produttiva nei prossimi mesi, quando cesseranno alcuni degli interventi messi in campo per far fronte all’emergenza.
In parte il Rapporto Cerved 2020 è dedicato ad un esercizio che stima questi impatti, al fine di fornire informazioni utili sulle politiche da mettere in atto per contrastare gli effetti del coronavirus sul sistema economico e sociale italiano.
Una simulazione condotta su tutte le società di capitale (730 mila, con una base di 10,2 milioni di occupati, pari al 42% di quelli italiani) indica che, senza le prospettive di un rapido ritorno alla crescita, le conseguenze su occupazione e investimenti potrebbero essere rilevanti. A regime, le imprese analizzate potrebbero ridurre il numero di lavoratori di 769mila unità (circa il 7,5% della base di occupati impiegata da queste imprese a fine 2019), a causa sia dell’uscita dal mercato delle società più fragili (135mila lavoratori coinvolti), sia dell’adeguamento della forza lavoro al ridotto giro d’affari (633mila addetti).
Proiettando questa stima al totale delle imprese private – comprendendo quindi anche società di persone e imprese individuali – la perdita potrebbe arrivare a 1,4 milioni di lavoratori (l’8,3% del totale).
Anche dal punto di vista territoriale, gli impatti sarebbero differenziati, con effetti maggiori nel Mezzogiorno: il numero di lavoratori nel settore privato si contrarrebbe del 9,4% nelle regioni del Sud nello scenario base, del 13% in quello più severo. Le imprese del Sud soffrono di più sia perché maggiormente specializzate nelle attività più colpite dalla pandemia sia perché più fragili finanziariamente. In termini di tassi di occupazione, il divario Nord-Sud non si allargherebbe ulteriormente solo grazie al maggior peso della Pubblica Amministrazione tra gli occupati del Mezzogiorno.
Data la natura fortemente asimmetrica della pandemia, la riduzione del capitale risulterebbe differenziata, con le riduzioni più consistenti nei settori maggiormente colpiti dal calo dell’attività economica e altri comparti meno colpiti.
Nei più colpiti, come logistica e trasporti, servizi e produzione dei metalli, il capitale si ridurrebbe di quasi il 10% nello scenario più favorevole con picchi del 15% in quello più severo; aziende agricole e chimica e farmaceutica subirebbero invece cali marginali. In termini assoluti, la riduzione più consistente di capitale, 27,6 miliardi (41,5 nello scenario più severo), è stimata nel terziario, soprattutto a causa del forte calo nella logistica e trasporti, che perderebbe più della metà di questo valore.
Gli investimenti post-Covid e le tendenze del new normal
La stima di una perdita di lavoratori compresa tra 1,4 e 1,9 milioni e quella di una riduzione del capitale tra 47 e 68 miliardi di euro si basa sull’ipotesi che, una volta cessate le misure di sostegno per far fronte all’emergenza sanitaria, non ci siano prospettive di rilancio per l’economia. Sarà quindi decisivo il Next Generation EU, il piano di finanziamenti per la ripresa dell’Europa con una dotazione di 750 miliardi, che ha messo al centro la sostenibilità e la digitalizzazione.
Le risultanze effettive sull’occupazione e sulle imprese dipenderanno da come l’Italia deciderà di impiegare queste risorse e dalle specifiche misure che verranno messe in atto, che dovranno tenere conto delle tendenze emergenti. Trasformazione digitale, distruzione e ricostituzione delle catene globali del valore, smart working potrebbero indurre un rapido cambiamento della struttura produttiva, con alcuni settori emergenti in espansione e altri che invece sono destinati a un inevitabile ridimensionamento.
Gli incentivi non potranno prescindere dalle due direttrici previste dal Next Generation EU, digitalizzazione delle imprese e transizione verso un sistema più sostenibile. Un’analisi basata sul Cerved Growth Index – un indice che sintetizza le potenzialità di crescita delle imprese italiane, tenendo conto anche del loro grado di innovazione digitale – indica che sono solo 14mila (il 9%) le PMI con digital capabilities elevate.
Per promuovere la digitalizzazione, è necessario da un lato intervenire sugli ostacoli che anche in passato hanno frenato l’adozione delle tecnologie da parte delle imprese italiane: pratiche manageriali inadeguate, alta presenza di imprese piccole e familiari, scarso peso degli investitori istituzionali. Dall’altro si potrebbe rafforzare il piano di Industria 4.0, che ha negli scorsi anni ha fortemente incentivato gli investimenti in innovazione delle imprese.
La transizione verso un sistema più sostenibile richiederà nei prossimi anni forti investimenti da parte del nostro sistema industriale. La regolamentazione finanziaria cambierà e in molti settori le aziende si troveranno di fronte a un bivio: ristrutturarsi verso sistemi più sostenibili o non riuscire a finanziarsi sul mercato. Questi settori si caratterizzano per una presenza molto elevata di imprese piccole, un aggregato più rischioso del resto dell’economia, che ne limita le potenzialità di investimento. La transizione ambientale richiederà capitali e sarà necessario selezionare gli interventi, per favorire la ristrutturazione delle imprese in grado di creare valore nei prossimi anni.