La coesione che non c’è (più)
"Se l’Italia usa male e in ritardo i Fondi europei, bisogna pur dire che di norma non usa affatto quelli nazionali: le risorse parallele, stanziate nel Fondo Sviluppo e Coesione e destinate dal CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) attraverso procedure a loro volta sempre più opache, inutilmente complesse e non di rado violate, restano infatti inutilizzate per anni", rileva Giovanni Vetritto, direttore generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri nell'articolo pubblicato sulla rivista Stati Uniti d'Europa, che di seguito riportiamo su gentile concessione.
Si è aperto ormai da diversi mesi il tavolo di negoziato sul bilancio pluriennale dell’Unione europea post 2020. Come in ogni altra simile occasione, al cuore della discussione sta l’unica partita finanziaria di reale riequilibrio tra gli Stati, quella dei Fondi strutturali europei, che finanziano la Politica di coesione.
> La proposta della Commissione per il bilancio UE 2021-2027
Si tratta di una politica di finanziamenti ai Paesi che abbiano al loro interno aree il cui PIL pro capite sia inferiore al 75% di quello medio dei Paesi membri dell’Europa a 25. Un contraltare in qualche misura keynesiano al delirio di dogmatismo di matrice neoclassica che affligge le politiche di bilancio dell’Unione, e per questo da sempre molto criticato dall’ala liberista dell’establishment e da molti Stati nordici, costretti a contribuire a una politica che non li riguarda affatto.
La tensione ha di recente anche prodotto un risibile effetto nominalistico, tanto che i Fondi sono stati rinominati SIE, ovvero Strutturali e di Investimento, per fugare da subito il terrore che possano andare a finanziare politiche della domanda e attività di parte corrente (come avrebbe voluto l’ormai demonizzato genio del Bloomsbury set).
In una logica competitiva tra gli Stati sempre più forte, a causa della malaugurata deriva intergovernativa dell’Unione, la trattativa vede contrapposta la Germania, che anche rispetto ai Fondi vuole imporre agli altri Stati membri la sua ricetta antinflazionistica e recessiva, gli Stati del Nord, che come detto chiedono da tempo la soppressione di questa partita finanziaria, gli Stati del patto di Visegrad, che puntano a monopolizzare queste risorse, e gli Stati mediterranei, troppo spesso inclini a difenderne, al contrario, l’esistenza in maniera acritica e senza un adeguato calcolo tra costi e
Quando nacque, con il primo “pacchetto Delors”, lo strumento aveva una evidente ratio di redistribuzione tra Stati e poggiava su una incrollabile fede dell’allora presidente della Commissione nella capacità dei sistemi locali di superare il divario economico, se solo fosse stata data loro la possibilità di disporre di adeguate risorse.
Nel tempo questa visione è stata smentita dai fatti, ed è emersa l’estrema variabilità dei risultati, dipendente soprattutto dalla capacità dei Governi centrali di orientare le comunità locali e sostenerle nello sforzo di utilizzo virtuoso delle risorse: per fare un solo esempio, nell’attuale settennio di programmazione sono uscite dall’area del beneficio pressoché tutte le regioni dell’ex Germania Est, mentre le Regioni italiane beneficiarie sono passate dalle 4 del settennio precedente di nuovo a 5 (con il ritorno della Basilicata tra le svantaggiate).
L’Italia, dunque, più di altri Stati dovrebbe interrogarsi sulla opportunità e sulla convenienza di sostenere la permanenza di una policy molto impegnativa finanziariamente e di difficile utilizzo. Un Paese come il nostro, contributore netto (ovvero che dà al bilancio dell’Unione più risorse di quelle che riceve in ritorno) potrebbe avere interesse, in teoria, a rinazionalizzare le politiche di sviluppo locale, sottraendole al cieco e autoreferenziale tecnicismo di spesa che maniacalmente la Commissione impone per l’utilizzo dei Fondi e puntando ad ampliare lo spazio finanziario degli investimenti nazionali nelle aree in ritardo di sviluppo.
Non si può infatti restare contributori per avere risorse che ci costringono a svuotare i cassetti per imputare loro una quantità enorme di progetti già finanziati con risorse nazionali, mutandone la fonte per non incorrere nella perdita della quota nazionale.
Questo è da sempre pressoché l’unico stratagemma che l’Italia usa in una evidente carenza di capacità di utilizzo tempestivo; quelli che un tempo si chiamavano “progetti sponda” oggi vengono addirittura denominati, con linguaggio paradossale al limite del ridicolo, “progetti retrospettivi”.
> La proposta della Commissione per la Politica di Coesione post 2020
D’altra parte un’altra considerazione va pur fatta: se l’Italia usa male e in ritardo i Fondi europei, bisogna pur dire che di norma non usa affatto quelli nazionali: le risorse nazionali parallele, stanziate nel Fondo Sviluppo e Coesione e destinate dal CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) attraverso procedure a loro volta sempre più opache, inutilmente complesse e non di rado violate, restano infatti inutilizzate per anni, continuamente riprogrammate, spostate in un itinerario ridicolo e spesso senza fine da un obiettivo a un altro, come accadeva alle proverbiali mucche di Fanfani.
Che fare, dunque? La risposta è ardua da dare. Il Governo in carica ha operato scelte che renderanno estremamente difficile perfino la chiusura della stagione 2014-2020, ragion per cui essere a favore della perpetuazione della Politica di coesione appare sempre più difficile. Invece di semplificare la decisioni, l’attuale compagine ha sottratto al Ministro competente (quello per il Sud) la disponibilità del Fondo Sviluppo e Coesione (cosa mai accaduta da Fitto ad oggi, se non nell’infelice parentesi di delega dei soli Fondi europei al Sottosegretario alla Presidenza Delrio nel Governo Renzi); costretto lo stesso Ministro ad acquisire pareri e perfino concerti dal diverso Ministro delle autonomie regionali e locali; adottato scelte opinabili su strutture e personale.
Ma le perplessità vanno oltre le scelte di Governo. Perfino un recente paper del massimo esperto nazionale di questa materia, quel Fabrizio Barca che la plasmò come Capo Dipartimento sottratto alla carriera in Banca d’Italia da Ciampi, per poi indirizzarla, come Ministro, nel Governo Monti, lascia interdetti nel suo intento di criticare l’esistente e immaginare il futuro. Barca, da sempre convinto sostenitore della Politica di coesione, ha scritto in questo saggio più politico che tecnico, della necessità assoluta di conservare questa policy, evitando tanto il centralismo statale che il localismo non governato, per adottare una moderna logica di confronto e dialettica tra i livelli di governo, secondo il modello che gli economisti dello sviluppo chiamano delle politiche “place based”. E fin qui non si può non concordare.
Al cuore del saggio, però, Barca pone tre “mosse”, di per sé pure condivisibili, che richiederebbero una vera e propria mutazione politica dell’Unione, essendo allo stato del tutto implausibili.
> Bilancio UE: Barca, tre mosse per la Politica di Coesione post 2020
Come prima mossa, Barca chiede la moratoria della bulimia regolativa della Commissione sull’uso dei Fondi; cosa buona e giusta, ma che si scontra con la realtà delle continue “semplificazioni” imposte da Bruxelles e tramutatesi ogni volta in una moltiplicazione inarrestabile di regole e pagine di interpretazione. Se questo accade non può essere solo per un protagonismo funzionariale, ma probabilmente proprio per la mancanza di respiro politico delle misure, che, al di là di condivisibili priorità, ma tanto generiche da non vincolare nessuno, subiscono il riflesso della perdita di ruolo della Commissione in una Unione ormai sciaguratamente intergovernativa. Di qui il rifugio delle Direzioni nell’iperregolamentazione per cercare di esistere e recuperare un qualunque ruolo.
Per questo la seconda mossa proposta da Barca appare quasi paradossale: una Commissione che faccia due passi avanti nella gestione della policy, unendo Uffici e Fondi, semplificando (davvero) i controlli e addirittura scegliendo 500 “pionieri europei dello sviluppo” da mandare presso le autorità di spesa per migliorarne la performance (e qui l’eco dei “100 uomini d’acciaio” di Guido Dorso è gradevole per chi scrive ma sorprendente nella sua debolezza). Mossa, questa, che presupporrebbe una Commissione autonoma, sovrastatale e autorevole, che solo una Unione compiutamente federale potrebbe permettersi (e Barca è tra i moltissimi appassionati europeisti che però il salto politico e concettuale all’invocazione del federalismo europeo non hanno mai ritenuto di farlo, men che mai pubblicamente).
La terza mossa, ovvero il rilancio di un pieno coinvolgimento delle tre principali Istituzioni dell’Unione per una valorizzazione piena delle Politiche di coesione nella prospettiva dell’Agenda 2030, fa quasi sorridere di tenerezza nella medesima prospettiva: il funzionalismo ha dato ciò che poteva dare, nella situazione data non è nemmeno ipotizzabile che gli Stati cedano a istituzioni ormai ridotte a ectoplasmi un smile potere. La cartina di tornasole della natura politica più che tecnica della crisi della Politica di coesione si trova infatti nelle conclusioni di Barca, laddove l’ex Ministro richiede una condizione di efficacia che ci riporta alla ragione di fondo dell’impasse in cui l’Unione si dibatte da anni.
In una sorta di inconfessata ipotesi di “quarta mossa”, Barca chiede infatti a gran voce che l’utilizzo dei Fondi non sia subordinato al rispetto della attuale “macrocondizionalità” costituita dal rispetto dei vincoli di bilancio del fiscal compact (in violazione dei quali si hanno multe e perfino sospensione delle quote nazionali di Fondi SIE).
Quella “macrocondizionalità” è l’architrave stessa del sistema che va gioiosamente verso il suicidio, è la certificazione del passaggio dalla volontà di cooperazione del 1957 alla volontà di potenza del 1993, è la ragione stessa della trasformazione dell’Unione da popperiana “società aperta” (se del caso anche all’errore) a una grottesca e plumbea Unione come società chiusa del rigore, del free riding tra Stati, della deriva deflazionistica e suicida rinforzatasi negli anni.
Che un uomo della credibilità di Barca, protagonista non solo a Roma ma anche a Bruxelles dei dibattiti più avanzati, anche come Consigliere di più Commissari alla coesione, non senta l’urgenza di mettere i piedi nel piatto e di iscrivere le sue proposte nell’orizzonte della inadeguata Europa che c’è, non è certo un bel segnale. Nel frattempo, con il Paese a picco nell’uso delle risorse e privo di un visibile orientamento per il futuro nel negoziato sul bilancio post 2020, Romae consulitur…
Giovanni Vetritto
> Appello per un'iniziativa federalista europea
> Il n. 26 della rivista Gli Stati Uniti d'Europa
photo credit: LIBER Europe