UE - quanta legislazione proviene da Bruxelles?
I meccanismi del processo decisionale europeo tra funzionalismo e circuito inter-governativo
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Oggi più che mai, in mancanza di vera Unione politica europea come spesso ci viene ricordato da diversi esperti di federalismo europeo, si sente insistentemente parlare di un’astratta euro-tecnocrazia esercitata da Bruxelles e dalle sue istituzioni; nel contempo, si assiste al ripiegamento degli Stati membri verso una rivendicazione della propria sovranità e quindi una chiusura al dialogo ed, ancora peggio, ad un utilizzo populistico dell’Ue a cui addossare distorsioni e conseguenze negative, si badi bene, persino in quei processi decisionali nei quali le istituzioni europee non hanno alcun ruolo diretto normativo, in quanto non previsto dai Trattati.
Entrambe le affermazioni sembrano in contraddizione ed una domanda sorge spontanea: questo equivoco, che spesso fa comodo a molti governi nazionali di turno in fortissima crisi di consensi ovunque in Europa, è figlio di una cattiva informazione o piuttosto, e presumibilmente, di un sistema, quello decisionale europeo, al di fuori ed al di dentro delle istituzioni europee democraticamente elette e non, complesso e poco conosciuto ai più?
Capire cosa fa l’Ue significa affrontare la questione: quanta legislazione proviene da Bruxelles?
Si tratta di una domanda quanto mai attuale che va ricondotta anche a quanto Jack Delors, noto europeista e già presidente della Commissione europea, ipotizzò quando alla fine degli anni Ottanta affermava che “nel giro di un decennio l’80% delle decisioni in materie di politica economica e presumibilmente fiscale e sociale sarebbero arrivate da Bruxelles”.
E' quanto emerge da un report (How much legislation comes from Europe?) del 2010 commissionato dalla House of Commons, parlamento britannico, ben sei anni prima della Brexit. Realizzato in tempi nei quali almeno tra la maggioranza dei cittadini europei non ancora circolavano le parole Brexit o “Stay or Leave”, con tutte le conseguenze ancora da valutare, sebbene il Regno Unito abbia sempre avuto un atteggiamento di distanza dall'Ue reclamando, più di altri Stati membri, svariati opt out in accordi e trattati, il report inglese evidenziava un punto nodale: come l’Unione, a distanza di oltre 20 anni dall'affermazione di Delors e alla luce della modifica dei diversi Trattati, avesse ampliato il raggio di azione intervenendo nel tempo in moltissimi campi di policy, finendo con l'avere un “'impatto' su una percentuale rilevante della legislazione nazionale dei singoli Stati. Percentuale che, sempre secondo l'analisi, andava dal 6% fino all’85% a seconda dei Paesi Ue.
Parlare oggi di quale e quanta legislazione venga dall'Europa, e quanto questa possa confluire laddove implica precisi obblighi nei processi decisionali nazionali (regolamenti, direttive etc), significa anche addentrarsi nel cuore del dibattito politico europeo e dell’attuale messa in discussione di un sistema che comunque, bisogna sempre ricordare, nasce da un processo di democratizzazione ed integrazione europea. Processo che, a detta di molti esperti, ha subito un freno poderoso negli anni duemila prima e non solo del rigetto in Francia e Olanda del Trattato costituzionale europeo sottoposto, per procedure proprie di questi Paesi, a referendum popolare.
Al di là delle valutazioni spesso rese e riprese da coloro che non hanno alcuna base conoscitiva del percorso di integrazione europeo, prima di invocare una astratta burocrazia europea la questione va posta in questi termini oggi: cosa fa e come decidono l’Ue e le sue istituzioni? Quanto, su cosa e come decidono autonomamente i singoli Stati membri, posto che per molte competenze - in primis, politiche del lavoro e politiche sociali - ed in base anche al principio di sussidiarietà il processo resta nell’esclusiva sfera decisionale degli Stati membri con l’Unione che può soltanto avere un ruolo di stimolo ed indirizzo di principi?
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Un'integrazione a piccoli passi
Ora per i non addetti ai lavori o a digiuno di processi decisionali europei ma anche in primis per coloro distratti dalle logiche, dinamiche e processi nazionali, bisogna fare alcune considerazioni di premessa e quindi fornire alcune chiavi di lettura essenziali.
Prima considerazione generale riguarda il processo di integrazione europea e la sua storia. E' importante ricordare la storia per molta parte dell'opinione pubblica, specie per coloro con lauree tecniche la cui formazione non prevede questi argomenti, nonostante agli stessi sia richiesto continuo aggiornamento sulle normative tecniche spesso di matrice e origine europea; si pensi in primis all'energia nelle implicazioni di efficienza energetica, standard innovativi per materiali e tecnologie etc..
Traendo liberamente spunto da una lezione del prof. Giuseppe Allegri, presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Sapienza Università di Roma, nell'ambito del seminario “Europa concentrica” (2015), si evincono molti aspetti interessanti di un progetto, quello che ha portato all'attuale Unione europea. E' un progetto che si sviluppa sacrificando la spinta “federalista” e procedendo per una “integrazione funzionale” che avanzava per competenze, nella logica dei “piccoli passi” nell'intento, secondo personalità come come Monnet, Schumann, De Gasperi, per citarne alcuni, di sommare benessere ed economia sociale nel progetto di integrazione stessa, ma soprattutto al fine di superare gli incubi nazionalistici che avevano condotto l'Europa verso conflitti e totalitarismi. Per eliminare, cioè, il rischio di una permanente guerra civile europea.
Negli anni Novanta il Trattato di Maastricht sancisce parametri macro-economici molto pervasivi e contemporaneamente si avvia il dibattito per una governance democratica dell'integrazione, per tenere insieme democrazia politica ed economica. Sul finire di quegli anni si apre il confronto sul “futuro dell'Europa”, teso a coniugare due ottiche contrapposte nel tentativo di aprire a una maggiore partecipazione e legittimazione democratica della Cee/Ue: superare l'ottica intergovernativa, espressione delle esigenze delle 'élite politiche', ovvero degli interessi nazionali dei singoli Stati e riconducenti ad organismi espressione dei Governi e delle relazioni tra burocrazie governative (Consiglio europeo e Consiglio dei Ministri dell'Unionr); favorire la prospettiva comunitaria nella relazione tra Parlamento Ue (unico organo ad elezione diretta dei cittadini europei dal 1979), Commissione, Corte di Giustizia, Bce (e quindi Comitato delle Regioni, Comitato economico e sociale, etc.) con l'esigenza di garantire l'affermazione di un interesse comune europeo. Anche tenendo conto della grande funzione integrativa che ha avuto la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue nel riconoscimento di diritti di una nuova cittadinanza europea.
La prospettiva è quella di interrogarsi su quali strumenti introdurre per “democratizzare” l'integrazione funzionale del mercato unico e della nascente moneta unica “senza Stato” (l'Unione economica e monetaria), a partire dall'adozione di una Carta dei diritti fondamentali dell'Ue (2000) e quindi di un “Trattato costituzionale” (Trattato che adotta una Costituzione), frutto di due Convenzioni europee.
In quegli stessi anni si realizza l'allargamento ad est dell'Ue. Il “Trattato costituzionale” è visto con diffidenza dalle classi dirigenti nazionali, in quanto elemento di ulteriore riduzione della sovranità nazionale, anche dal punto di vista simbolico: una Costituzione per l'Europa?
Lo stop al progetto di Costituzione per l'Europa
Al di là delle valutazioni e di narrative che attengono alla vivace disciplina delle scienze politiche e che oggi fanno gridare allo strapotere ed ad una euro/tecno-burocrazia avente come principale colpevole la Commissione europea, un fatto è certo: il Trattato passa da una stesura iniziale di 56 semplici articoli ad oltre 400 articoli, diventando nei fatti illeggibile e incomprensibile per l'opinione pubblica europea. Saranno i referendum francese ed olandese della primavera 2005 a fermare il processo di costituzionalizzazione, mantenendo la supremazia delle conferenze intergovernative e delle relazioni tra élite e burocrazie nazionali, nonostante il Trattato di Lisbona (2009) si muova nel senso di assegnare un ruolo maggiore nei confronti del Parlamento europeo.
In quegli stessi anni, a partire dal 2003, la mancanza di una posizione unitaria in politica estera, come afferma sempre Allegri ricordando il caso dell'intervento in Afganistan (e poi in Iraq) - con l'asse franco tedesco per il non intervento e tutto il blocco dei Paesi dell'Est Europa per il sì - è il sintomo di una spaccatura che si approfondirà sempre più nel senso di un'Europa disunita. Come ad esempio intorno alla questione dei migranti, con molte implicazioni e scelte intergovernative, rese poco note al largo pubblico, usate a piacimento da molti governi nazionali e da partiti populisti per ricordare che l'Unione, a torto od a ragione, fa poco e male. Non a caso è a partire da queste tematiche (sicurezza, globalizzazione, questione migratoria, etc.) che assumono sempre maggior peso le spinte ed i partiti anti-europeisti, nazionalisti, xenofobi.
L'impatto della crisi
A tutto ciò si aggiunge appunto, con la crisi economica tra il 2007-2008, la drammatica assenza di strumenti europei di contrasto delle speculazioni finanziarie e per tutelare cittadini e Paesi dell'Eurozona e dell'UE; mancanza che, come dice, infatti, il Prof. Allegri, spinge a procedere per accordi internazionali affermandosi così un curioso diritto comunitario figlio dell'emergenza ovvero di un “federalismo degli esecutivi” (J. Habermas) o “direttorio degli esecutivi” (Allegri, Bronzini, Sogno europeo o incubo?, 2014) a sostanziale e riluttante trazione tedesca.
Il Fiscal Compact ne è un esempio ed è li che entrano in scena anche le istituzioni internazionali, del tutto esterne al circuito comunitario e unionale, come il Fondo monetario internazionale (nella cosiddetta Troika). Ed è li che appunto prevale l'ortodossia ordo-liberale e monetarista che acuisce la frattura sociale all'interno del vecchio Continente (tra Paesi “virtuosi” del nord Europa e Paesi “spendaccioni” dell'Europa mediterranea) e contemporaneamente sancisce il definitivo rallentamento di un'integrazione sociale e politica, tentata in modo fallimentare con il processo di costituzionalizzazione del passaggio di millennio.
Le competenze previste dai Trattati
Fatta questa generale premessa veniamo a quanto stabilito dai Trattati europei che, semplificando al massimo, individuano competenze esclusive dell’Ue, concorrenti o di supporto dell’Unione agli Stati Membri. In questo quadro quindi si rilevano le competenze esclusive degli Stati membri, nelle quali questi hanno potere di iniziativa - solitamente esclusiva prerogativa della Commissione nel processo funzionale di cui si parlerà più innanzi - e dove tra l’altro il Parlamento europeo ha mero potere consultivo od ancora il ruolo della Corte dei Conti europea appare ridotto.
Nelle materie non di esclusiva competenza dell’Ue, quanto detto va anche inquadrato e si comprende meglio, tenendo conto del principio di sussidiarietà e proporzionalità: principio inserito nei Trattati europei che “mira a portare l'esercizio delle competenze il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio di prossimità” (PE, Note sintetiche sull'Unione europea – 2017).
Da ciò deriva la governance multi-livello, diretta, in estrema sintesi, a regolare l’interazione tra azione dell’Ue e Stati Membri. Va ricordato che la sussidiarietà e la governance multi-livello vanno letti tenendo bene a mente i diversificati assetti politico-amministrativi ed i livelli di decentramento e devoluzione delle competenze ai livelli/entità sub-nazionali affidati dai diversi Stati membri in un percorso più o meno spinto di natura federalistica o piuttosto centralistica; assetti istituzionali e processi in continuo movimento accomunanti più Stati europei, e legati sempre più spesso a dinamiche macroeconomiche ovvero situazioni economiche di boom e di bust.
Basti pensare ai tentativi riorganizzativi con la cancellazione del livello provinciale in molti Stati membri e le recenti spinte più o meno ri-accentratrici di molti governi europei e non solo dell’Italia negli ultimi 2 anni. Ma basti anche riflettere sugli studi effettuati dalla Commissione attraverso i Programmi Interreg sulle possibili barriere derivanti dalla procedure amministrative in molti campi di policy a livello di singoli territori, talora ricadenti in medesimi Stati membri come nel caso italiano; lo studio evidenzia una eterogeneità ed incongruenza di applicazione ma peggio una incapacità di ricostruzione ingegneristica dei processi amministrativi. Sembra un punto da poco ma non lo è, perché è da queste anomalie che partono e si ergono le vere barriere invisibili della burocrazia dei singoli Paesi.
Ne deriva che parlare di processi decisionali, competenze, sussidiarietà, governance multi livello, ovvero di un processo a metà tra un approccio federale e inter-governativo e quando si applichi l'una o altra procedura, significa quindi affrontare questioni particolarmente importanti di cui oggi in pochi hanno conoscenza meno che meno il cittadino medio europeo.
La doppia natura del processo decisionale europeo
Ritorniamo adesso alla doppia natura del processo decisionale europeo che oscilla tra sistema intergovernativo e funzionalistico, con il risultato storico dell'eccessivo utilizzo del primo a scapito del secondo, ritenuto dagli esperti un deficit democratico e prodotto di un’Unione politica non mai raggiunta.
Al netto delle competenze esclusive degli Stati Membri e del processo intergovernativo nelle materie indicate dai Trattati, il processo funzionale europeo vede in gioco il cosidetto trilogo composto da Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, secondo un rinnovato quadro di cooperazione inter-istituzionale (Legiferare meglio - 2016) e nel quale la Commissione europea sottopone le proposte al Consiglio ed al PE. Quest'ultimi hanno piuttosto potere di emendare gli atti mentre la Commissione inoltre lavora ad una posizione comune che soddisfi entrambi il Consilium ed il PE, istituzioni dal Trattato di Lisbona divenuti co-decisori con pari legittimità.
Al contrario, quando si parla di processo intergovernativo si parla soprattutto di Consiglio dell’Ue e Consiglio europeo, sovente di decisioni prese attraverso consenso più che sistema di votazione. Inoltre, e questo è avvenuto per molti anni e resta quando si trattano problematiche sensibili, le riunioni chiave restano a porte chiuse, meno che meno sono resi noti gli esiti. Non si confonda comunque il ruolo del Consiglio europeo con il Consiglio dell'Unione rappresentato il primo dai capi di governo degli Stati membri, il quale fa si parte delle istituzioni europee, ma non ha diretto potere normativo nel processo funzionale. Tuttavia il suo ruolo è quello di dare stimolo e definizione delle priorità politiche dell'Unione.
Va ricordato infine al di là delle speculazioni che il processo funzionale a differenza di quello intergovernativo risulta molto più aperto ed accountable, nel senso che sono traccabili documentazioni e esiti delle proposte della Commissione europea ma soprattutto gli esiti dei lavori e decisioni del Consiglio e del PE.
Le fonti normative
E veniamo all'ultimo elemento conoscitivo: la natura delle fonti normative ed in particolare quelle riferite al processo funzionale, citando poi il caso del Multi Annual Financial Framework (le prospettive finanziarie pluriennali) la valutazione della complessità dell'effetto intergovernativo, tralasciando invece casi come il Fiscal compact o altri accordi ben più complessi da valutare legati peraltro ad accordi internazionali.
Del processo decisionale funzionale, per ovvia complessità, non si citano gli atti di legislazione secondaria ed implementativa oggetto quest'ultimi della procedura di comitologia, per la quale è in itinere una proposta generale di modifica delle procedure da parte del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. Tale proposta è intesa a far assumere agli Stati maggiore responsabilità in ambiti spesso conflittuali, nell'intento di ridurre la prassi comune dell'astensione da parte di rappresentanti nazionali in casi ritenuti scomodi come l'uso del glifosato nei fertilizzanti, addossando poi la responsabilità finale alla Commissione che deve comunque assumere una decisione finale.
Il processo di legislazione primaria passa attraverso la procedura legislativa ordinaria dove Parlamento e Consiglio hanno pressoché assunto lo stesso peso decisionale. Nelle aree di esclusive competenze dell'Ue, l'Unione stessa ha la possibilità di promuovere atti legalmente vincolanti ovvero che impegnano ed hanno efficacia normativa diretta sugli Stati membri. Questi sono regolamenti e direttive con la differenza che queste ultime vanno trasposte e pertanto le modalità e tempi di implementazione sono lasciati agli Stati membri: a ben guardare per l'appunto intervenendo in primis la sussidiarietà.
Il caso del Quadro finanziario pluriennale
E veniamo all'approvazione del Multi Annual Financial Framework, il Quadro finanziario pluriennale 2014-2020, ed in particolare alla mid term review (la revisione intermedia) che ha palesato l'estrema rigidità del processo decisionale rispetto in primis alla crisi determinata dal fenomeno dei migranti, ma ancor di più, le spaccature tra gli Stati membri.
Qui si riportano le considerazioni liberamente tratte dagli interventi del prof. Iain Begg della London School of Economics e dal dr. Jorge Nunez Ferrer del Centre for European Policy Studies, nell'ambito del MOOC "EU budget for Regions and cities", tenutosi nel 2016 e promosso dal Comitato delle Regioni, dalla Commissione (DG BUDG e DG REGIO) e dalla Banca Europea degli Investimenti.
Va detto subito che quasi l'80% del bilancio europeo è gestito in maniera decentrata dall'Ue e gli Stati Membri, andando a finanziare in larga misura la Politica agricola comune e lo sviluppo regionale (Politiche di Coesione). Una partita di giro che pur tuttavia negli anni ha serrato le regole di implementazione, controllo ed audit, oltre che fortemente vincolare gli ambiti di investimento trattandosi, si badi bene, di risorse aggiuntive dell'Unione per attuare comunque interventi con scopo generale europeo. Cosa che non piace a molti Stati. Va detto che oggi al grosso del bilancio europeo (oltre il 75%) contribuiscono singoli Stati membri in percentuale calcolata sul reddito nazionale lordo (Gross National Income) e l’Italia nell'Ue a 28 risulta il quarto contributore netto.
Ora, secondo la prassi dei Trattati, l’approvazione della proposta effettuata dalla Commissione europea di ciascuna programmazione europea - da alcuni anni settennale - richiede l’unanimità da parte del Consiglio dell’Ue, che è poi unico organo decisionale. Il Parlamento europeo ha soltanto un ruolo di endorsement e limitatissimo potere di proporre 2-3 generali emendamenti i quali tuttavia non sono vincolanti. Si tenga conto che il 2017 aprirà la discussione a cui farà seguito la negoziazione sulle prospettive finanziarie post 2020, il futuro bilancio dell'Ue. Ed è qui che si palesano le distorsioni a monte del processo che genera e genererà un’impasse dal momento che i vecchi equilibri tra Stati, come emerge sempre più spesso dai media, sembra essersi incrinato da lungo tempo.
Al di là di quelli che sono i diversi passaggi decisionali l'effetto del processo inter-governativo, sta nel fatto che sin ad ora il quid e quantum da allocare alle singole policy e complessivamente la struttura del budget europeo si basano brutalmente su quello che i francesi chiamano il juste retour (giusto ritorno/ma si legga pure tornaconto); per intenderci il juste retour trova una sintesi efficace nelle famose parole attribuite alla Thatcher che, negli anni Ottanta avrebbe esclamato “I want my money back”, ottenendo quindi, unico Paese europeo, il famoso 'rebate', ovvero un parziale seppur sostanziale rientro della contribuzione del Regno Unito al bilancio complessivo dell'Ue.
Se si mettono in fila le richieste dei singoli Stati, prodotto di bracci di ferro e alleanze di scopo poco note ai più, si comprende l'impasse che ci attende per il post 2020. Questo in barba al concetto basilare su cui dovrebbe poggiare il bilancio europeo secondo cui l'intervento finanziario dovrebbe in primis supportare progetti di “valore aggiunto europeo”. A detta degli esperti il juste retour è lasciato alla “libera interpretazione politica” degli Stati membri che ovviamente guarderanno sempre ad un ritorno certo di risorse e meno al principio di solidarietà alla base di molti interventi dell’Ue miranti in primis all’integrazione ed alla coesione dei territori.
Photo credit: Håkan Dahlström