Rating pubblico - la PA italiana misurata dai cittadini
Come funziona il Rating pubblico e in che modo può contribuire a migliorare trasparenza e performance della PA italiana, partendo dal punto di vista dei cittadini? E' quanto racconta il volume “Né smart né open, intanto città. Secondo Rapporto sul Rating Pubblico dei Comuni” di Paola Caporossi.
> Open data: il Portale MEF-Consip si rinnova con piu' contenuti
Il Rating pubblico è un modello di valutazione della trasparenza e dell'efficacia delle PA realizzato da Fondazione Etica sulla base degli Indici di Sostenibilità Esg (environmental, social, governance) in Borsa. Sviluppato a partire dal 2009 sulla base del lavoro di un team di ricerca con esperienza ventennale in tema di sostenibilità Esg, il Rating pubblico si propone di valutare la trasparenza, l'integrità e le performance delle PA locali e nazionali, favorendo anche la partecipazione e l'inclusione dei cittadini.
Il modello - testato su Asl, Regioni e Comuni - è protetto da copyright, con il relativo marchio, dal 2012 presso l’Ufficio Brevetti Italiano ed è stato premiato da Cassa Depositi e Prestiti e da Confindustria. Ad aprile Fondazione Etica ha inoltre siglato un protocollo d’intesa con il Dipartimento Affari Regionali e Autonomie della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la valorizzazione del Rating pubblico come strumento di valutazione delle PA.
Nel volume “Né smart né open, intanto città. Secondo Rapporto sul Rating Pubblico dei Comuni: valutazione comparata della performance, trasparenza, anti-corruzione” (Rubbettino Editore), l'autrice Paola Caporossi, vicepresidente e direttore di Fondazione Etica, affronta il limiti dell'attuale dibattito pubblico sulla burocrazia, descrive i vantaggi di questo modello di valutazione delle PA in termini di accountability e performance, per poi proporre una classifica dei Comuni - su un campione costituito da un capoluogo di Provincia per ogni Regione - sul fronte della trasparenza e dei risultati dell'azione amministrativa.
Riportiamo la prefazione, a cura di Giovanni Vetritto, direttore generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Prefazione Né smart né open, intanto città
C’è una evidente contraddizione che ha segnato gli ultimi vent’anni di riforma delle istituzioni amministrative; e ciò ben prima che esse iniziassero, con le ultime due legislature, a segnare il passo, ripetendo stancamente, in mille norme pedanti di dettaglio, un obiettivo generale di efficacia ed efficienza che non si riusciva più a perseguire efficacemente nella prassi quotidiana di governo.
Questa contraddizione può essere descritta come segue: si declamava l’ambizione a una Amministrazione più aperta, trasparente, misurabile, scrutinabile; ma nel contempo, nei meccanismi di governance delle strutture, si imponeva un determinismo programmatorio da catena di montaggio fordista, con un comando sempre più forte (e a tratti perfino autocratico) della politica in tutti i momenti cruciali dell’organizzazione e della conduzione delle strutture amministrative.
Si è trattato della ingenua trasposizione di un modello di governo delle grandi organizzazioni complesse del privato, tutto manageriale e ingegneristico, che ha fatto non pochi danni anche nel settore da cui è stato mutuato: non pochi degli studiosi più attenti, a livello nazionale e internazionale, evidenziano da anni come il “vecchio” management fordista, responsabile di fronte a una pluralità di stakeholders sociali e interni, garantisse un equilibrio maggiore (patrimoniale, finanziario, produttivo, sociale) rispetto alla nouvelle vague di una “nuova” managerialità legata solo alla “creazione di valore per l’azionista” e a rigidissimi parametri di valutazione “a breve” di una performance ridotta a unidimensionale dinamica del profitto.
Non è questa la sede per approfondire una letteratura ormai ricca sul tema; non si può, però, non sottolineare come questa tendenza abbia di fatto sterilizzato tendenze di teoria aziendale emerse negli stessi anni, verso l’empowerment delle risorse interne, verso lo schiacciamento delle catene di comando, verso la disgregazione delle prassi burocratiche e formalistiche, verso la valorizzazione di dinamiche innovative di lavoro di gruppo e circoli di qualità: tendenze che avrebbero potuto portare ad esiti di efficacia e innovazione pluridimensionali d’azienda ben diverse, e a un rapporto tra produzione e sostenibilità sociale ben altrimenti equilibrato.
Alla luce di quanto da ultimo evidenziato, è agevole comprendere quanti ben maggiori danni possa aver prodotto questa semplificazione ingenua nel settore pubblico, per sua natura orientato a comporre dissidi, a integrare situazioni, a equilibrare differenze, a servire pluralità e difformità di interessi e visioni.
Di fatto, la tradizionale trilateralità di rapporti tra politica, burocrazie professionali e attori sociali, che caratterizza la migliore tradizione del pensiero costituzionale liberale e democratico, è stata fittiziamente ricondotta a una implausibile catena di comando univoca: l’Amministrazione risponde (solo) alla politica, la quale risponde ai cittadini (solo) attraverso il momento di verifica elettorale.
L’immiserimento del dibattito pubblico su questo schema, e perfino la disillusione degli individui rispetto alla politica, perennemente incapace di rispondere in maniera fine a bisogni e situazioni estremamente mutevoli nei contesti democratici maturi, si spiegano in misura non piccola con la contraddizione che si è cercato, seppure brevemente, di illustrare.
Per questa ragione va accolto con grande soddisfazione e con un plauso enorme lo sforzo che da anni Fondazione Etica compie per attivare forme concrete e non demagogiche di valutazione della performance delle Amministrazioni Pubbliche. Sforzo condotto attraverso la predisposizione di un modello di rating pubblico multidimensionale, adatto a misurare in modo integrato, seppure analitico per singole dimensioni tematiche, nonché aderente ai non pochi obblighi di disclosure di dati e informazioni previsti da diverse disposizioni normative, la qualità dell’azione di una qualunque Pubblica Amministrazione.
Il punto è dirimente. Moltissimi sono gli strumenti di misurazione, le graduatorie, le classifiche basate su indici discutibili quando non apertamente aleatori, che giornali e riviste ci propongono continuamente, a volte con il malcelato intento di supportare una deriva antiburocratica della società e della pubblica opinione che sta producendo più danni che miglioramenti all’azione degli apparati pubblici nel suo complesso.
Il rating pubblico di Fondazione Etica non ha nulla a che vedere con questi esercizi avventurosi. Si basa su precisi obblighi di legge, misura aspetti dell’agire pubblico che sono quelli organizzativamente e normativamente indicati come fondamentali, valorizzando una potenziale funzione di controllo e verifica da parte della cittadinanza attiva della qualità operativa del funzionamento degli uffici. E ciò, va ribadito, in un’ottica generale che lo rende potenzialmente adatto a verificare la performance di qualsiasi struttura amministrativa, dal momento che determinati obblighi di trasparenza e accountability incombono indifferentemente su un ministero, su una Regione, su un Comune, su una Asl.
Ciò detto, non sorprende - ed è ancora una volta più in linea con una evidente priorità di policy che a volte la società civile attiva sembra cogliere meglio delle élite politiche - la scelta di adoperare, per questo rapporto, che è già il secondo prodotto dalla Fondazione, il sistema di rating su un universo come quello dei Comuni, particolarmente complesso e in sofferenza, ma decisivo nella percezione che il cittadino si fa dell’agire pubblico. Il tema è sotto gli occhi di tutti, ma non ha trovato sino a oggi adeguata attenzione da parte della politica. L’Italia è un Paese estremamente complesso, orograficamente e dal punto di vista della sua urbanizzazione. È composto di quasi 8.000 Comuni, più di metà dei quali sotto i 3.000 abitanti, quasi tre quarti sotto i 5.000 abitanti. Ha un numero alto di quelli che il maggiore giurista del ’900 italiano, Massimo Severo Giannini, chiamò, con fortunata espressione ancora oggi usata, i Comuni-polvere.
Su questo universo così complesso ha inoltre agito senza freni lo sprawl urbano, che si è imposto in Italia a partire dal fallimento dei progetti di razionalizzazione dei primi anni ’60 del secolo scorso: esemplare la vicenda della notissima proposta di legge di Fiorentino Sullo del 1963, sconfessata dal suo stesso partito.
Intere aree del Paese conoscono una densità urbana di fatto cui corrisponde una pluralità di centri di potere comunale senza più alcuna giustificazione nella realtà fisica. I Comuni di cinta delle città maggiori sono ormai indistinguibili dai quartieri esterni del centroide. Il governo del territorio risulta perciò innaturalmente frammentato, con gli esiti che tutti conosciamo in termini di degrado, di eccessiva impermeabilizzazione del suolo, di perdita di senso delle decisioni spaziali, ma anche di servizio.
A questa evidente problematica ha da ultimo cercato di porre rimedio la legge 56 del 2014, la cosiddetta “legge Delrio”: una legge certamente più criticata che studiata, e di certo quasi per nulla applicata per le non poche misure innovative, che avrebbero potuto produrre, in questi quasi quattro anni, miglioramenti incrementali non trascurabili. Di più, perfino poco sostenuta e implementata da quello stesso governo che ne aveva voluto l’approvazione.
Il tema del governo della prossimità è al centro dei processi di innovazione istituzionale in tutto il mondo: la Germania in vent’anni ha rivoluzionato il sistema del governo locale, chiudendo di fatto due terzi delle sue autorità municipali; la Francia ha ridotto da 22 a 13 le sue Regioni non d’oltremare, introducendo il meccanismo di governo coordinato delle communautés nouvelle intercomunali. Perfino la Polonia ha introdotto enti di governo integrato sovracomunale.
La ragione di questa coincidenza di sforzi è a sua volta piuttosto banale. Il successo del welfare novecentesco, la modernizzazione infrastrutturale e tecnologica, la modifica dei modi della produzione e del consumo hanno del tutto spiazzato i vecchi parametri di efficienza scalare, di massa critica minima, di distanza e separatezza.
In tutto il mondo, nell’analisi delle condizioni per lo sviluppo economico e civile, tornano d’attualità le teorie hirschmaniane sulle agglomerazioni di prossimità e sul capitale sociale. Si torna a leggere l’accento di Karl Polanyi alla collaborazione nei sistemi competitivi. Si premia con il Nobel la dettagliatissima analisi dei sistemi cooperativi nel tempo e nello spazio compiuta da Elinor Ostrom. Se l’Italia avesse ancora memoria, potrebbe utilmente tornare a studiare la teoria delle comunità di Adriano Olivetti.
Insomma, l’analisi culturale e l’evidenza empirica chiedono ai nostri sistemi sociopolitici, priorità tra le priorità, un migliore modo di governare la prossimità. Fondazione Etica ha colto la centralità del tema e ha voluto mettere al centro di una applicazione rigorosa del suo sistema di rating proprio i Comuni, e dunque la misurazione della performance del governo della prossimità. Con ciò dandoci parametri obiettivi e aderenti alle disposizioni di legge per interrogarci sui differenziali competitivi, sulle disparità di esiti, sulle esperienze felici e infelici di quel rompicapo irrisolvibile che sta diventando il governo locale.
Si tratta di un contributo prezioso, che si spera possa svegliare dal loro torpore i decisori politici, le associazioni degli enti locali, l’intellighenzia del Paese, tanto più in un torrido clima preelettorale. Chi ha lavorato a lungo sui problemi delle città e del municipalismo italiano ne apprezzerà i dettagli; ma chiunque può avere una guida alla comprensione di macrofenomeni che richiedono con urgenza un dibattito pubblico informato e serio, e decisioni collettive non più rinviabili.
Fondazione Etica, parte di quel mondo della cittadinanza attiva spesso più blandito che ascoltato, ha dato il suo contributo. Alla koiné politica e amministrativa offrire le risposte.